Il cervello narrativo: perché ci piacciono tanto le storie?

Viviamo in un’epoca narrativa. Le storie sono ovunque: nei social, nella pubblicità, nelle aziende, nelle nostre vite. Da sempre l’essere umano si innamora di un certo tipo di storie, anzi, sono proprio le storie a costruire la sua identità.

Secondo Yuval Noah Harari, succede da sempre. In Sapiens ci ricorda che la vera rivoluzione dell’Homo sapiens non è stata quella agricola o industriale. Anzi, se vogliamo, quelle sono state una fregatura: hanno peggiorato la qualità della vita e aumentato il lavoro da fare.
La rivoluzione che ci ha davvero fatto fare un salto evolutivo è stata quella cognitiva — il momento in cui abbiamo sviluppato la capacità di creare narrazioni.

Molti animali, soprattutto i primati, sono in grado di emettere suoni per avvisare i propri simili di un pericolo o della presenza di cibo. Ma, per quanto ne sappiamo, solo noi esseri umani siamo capaci di inventare storie: per raccontare come sfuggire a un leone o, più spesso, come non farci fregare la casa, il partner o il posto nel gruppo.

E qual è stato il vero vantaggio competitivo di questa abilità? La possibilità di convivere e cooperare in gruppi numerosissimi.
In molte specie, i gruppi sono piccoli e si reggono sull’autorità diretta di un leader: il più forte, il più saggio, o il più abile. Ma questo funziona solo se il gruppo si conosce di persona. I sapiens, invece, hanno imparato a vivere in comunità estese, capaci di riconoscersi e collaborare anche senza mai incontrarsi.
Come hanno fatto? Con le storie.

Le storie creano leggi, alimentano il senso di appartenenza, fanno nascere fiducia e rispetto. Da lì sono scaturite credenze, religioni, valori, istituzioni: mondi condivisi che esistono solo perché ci crediamo.

La vera differenza tra l’uomo e gli altri animali non è nel linguaggio, ma nella capacità di immaginare e condividere storie su cose che non esistono.
— Yuval Noah Harari, Sapiens

Oggi la parola narrazione è sulla bocca di tutti. Ogni epoca ha le sue parole abusate, e questa non fa eccezione. Ma perché ci piacciono così tanto le storie?

Fritz Breithaupt, con la sua teoria del cervello narrativo, ci mostra che la narrazione non è un abbellimento culturale: è il codice operativo della mente.
Pensiamo e ricordiamo per episodi: un inizio, una parte centrale, una fine. I nostri ricordi funzionano così, e così funzionano anche i film, i libri, le serie che amiamo.

Ogni segmento ha una funzione precisa. L’inizio deve introdurre un cambiamento; lo svolgimento deve farci partecipare emotivamente — dobbiamo sentirci dentro la storia, come se potesse accadere anche a noi, o come se potessimo intervenire per aiutare o impedire qualcosa. Poi arriva la fine, e il sollievo del “tutto torna”.
Ma ciò che davvero cattura il cervello è la trasformazione: la sensazione che dopo ciò che è accaduto, il protagonista non sarà mai più lo stesso.

Il nostro cervello si innamora di queste narrazioni.
E chi le sa costruire e raccontare ha una forma di potere — non sempre benevola. Con le storie si possono unire persone o dividerle, ispirare o manipolare, creare comunità o alimentare conflitti.

“Noi commerciamo illusioni: niente di tutto questo è vero. Ma voi tutti ve ne state seduti là, giorno dopo giorno, notte dopo notte, di ogni età, razza, fede. Conoscete soltanto noi. Già cominciate a credere alle illusioni che fabbrichiamo qui.”
— dal film Quinto Potere, 1976

Per questo le storie che ci hanno raccontato di noi stessi, fin dall’infanzia, non sono mai neutre.
Modellano il nostro modo di vedere il mondo e di agire.
Liberarsi da quelle narrazioni imposte non è semplice: ci abbiamo creduto per anni, e convincere il cervello che non siano più vere è un’impresa complessa.

Il primo passo è accorgersi che certe parole, certi racconti e certe immagini hanno un effetto su di noi, perché legati a esperienze o persone della nostra vita.
Da lì, ripercorrere e rinarrare la propria storia diventa un atto potente di conoscenza e trasformazione.

Oggi questa consapevolezza è richiesta anche nel lavoro.
Ai leader non basta più dare direttive: è chiesto di guidare attraverso il racconto, condividendo la propria esperienza, il purpose, i passaggi che li hanno resi ciò che sono.

E allora le domande diventano:

  • come diventare consapevoli dei punti chiave della nostra storia?
  • e come raccontarli in modo che abbiano senso per noi e per chi ci ascolta?

Sono domande che non hanno una risposta immediata, ma che aprono un cammino: quello di diventare consapevoli dei sottili fili narrativi che tessono le nostre trame, e di imparare a narrare per guidare e per generare.